Cenni Critici
 
Miro Romagna, spadaccino felice e inattuale (Fabio Girardello, 2009)
 

 

Fabio Girardello

Miro Romagna, spadaccino felice e inattuale

Si crede che chi più grida, più sia bravo: devono invece, essere i quadri a “parlare”, non la pubblicità. Due epoche a confronto nel mondo veneziano della tavolozza, “La Notte”, 18 luglio 1963 – Bruno Tosi

L’urgenza critica

Tuttavia, riporre intera la fiducia in un pur articolato e accorto ventaglio espositivo non garantisce, di per se stesso, di raggiungere l’obiettivo; il quale, considerando la sessantennale fedeltà al magistero pittorico di Miro Romagna, l’altezza dei risultati, il numero e l’importanza delle personali italiane e internazionali, deve imprescindibilmente essere, a tre anni dalla scomparsa, la definitiva storicizzazione dell’artista.
Quanto a fortuna critica, il caso di Miro Romagna somiglia a quello di tanti, troppi artisti veneziani e veneti della sua generazione. Come Nane Pontini, Gustavo Boldrini, Bepi Longo, Carlo Hollesch – per citarne soltanto alcuni fra gli scomparsi e limitarsi all’ambito strettamente lagunare - l’artista è stato vittima di un crudele paradosso storico.
Romagna è stato espositore precocissimo. Risale al 1949 la prima partecipazione alle Collettive dell’Opera Bevilacqua-La Masa (sarà presente a undici edizioni, fino al 1960), ma – come ricorda Paolo Rizzi – Romagna “esponeva nel 1942, a poco più di quindici anni, in Sala Napoleonica, proprio accanto ad un maestro come Cadorin”1.
Nel 1953, Romagna è invitato a esporre alla Little Gallery di Seattle. Nel 1956 è premiato, nell’ambito del Premio Burano, con il Premio Carpano. Nello stesso anno partecipa al Premio Marzotto, guadagnando il terzo premio. “Il primo” – sottolinea Paolo Rizzi – va a “un maestro come Felice Carena, secondi ex aequo Crippa e Dova, terzi ex aequo Pirandello e Romagna”2.
L’artista è stato notato ed elogiato fin dalle sue prime affermazioni pubbliche da osservatori di tutto riguardo (Carlo Dalla Zorza, Raffaele De Grada, Guido Perocco). È stato seguito, con affettuosa continuità, da un annotatore vigile e sapiente come Rizzi e, più tardi, da Enzo Di Martino, che ha scritto le pagine più intense e illuminanti sull’ultima produzione.
Romagna è stato – continua a essere - amato da una nutrita schiera di collezionisti di tutta la penisola, che da decenni lo considerano “un classico”. Eppure non gode, oggi, del riconoscimento che gli spetta; forse neppure in ambito regionale.
Dal 1942 al 2006, arco durante il quale si è svolta la sua avventura creativa, molte, convulse e straordinarie pagine di storia dell’arte sono state scritte in laguna: basti pensare allo sconvolgente impatto dei linguaggi statunitensi e europei nel primo dopoguerra; ai trionfi e alle crisi del sistema biennalistico; alla nascita o allo sviluppo di correnti che hanno segnato l’arte italiana; al tormentato ventennio a noi più prossimo, in cui Venezia ha assistito, praticamente imbelle, alla sua eclissi in quanto capitale dell’arte. Una moltitudine di fatti, che hanno reso brevissimo, anche in laguna, quel Novecento che è stato consegnato alla Storia come “il secolo breve”. È pertanto in qualche modo comprensibile che, nei decenni segnati dalla tardiva assimilazione delle avanguardie storiche e dall’affermazione delle neoavanguardie, sia mancato il distacco e la lucidità necessari per rivedere, riordinare, ristudiare gli esiti meno “di punta”. Per nulla giustificabile appare invece oggi, in tempi di assoluto relativismo estetico, l’acquiescenza a vecchi pregiudizi che ancora impediscono di riconsiderare senza partigianeria quel vasto settore della produzione artistica veneziana e veneta che ha scelto la strada della ricerca paziente, silenziosa, ma niente affatto codina, posizionata per scelta nel solco di una tradizione plurisecolare e che per tale ragione è stata bollata come retrograda e confinata nei piani bassi della “sottocultura”.
Fra gli incompresi, nonostante la costante evoluzione del suo linguaggio, sorvegliato e leggiadro fino alle prove estreme (la serie dei bellissimi Mulino Stucky, incompiuti, del 2005- 2006), c’è Miro Romagna.
Il suo gesto saettante è stato implicitamente o esplicitamente considerato troppo accattivante e “istintivo”. I generi “tradizionali” frequentati (il paesaggio, la natura morta) e ancor più i soggetti prescelti, nel tempo gradualmente sempre più “feriali” e quasi casalinghi, lo hanno relegato in un ambito malinconicamente nostalgico e crepuscolare.
Troppe note critiche hanno frettolosamente ricondotto la sua espressione al “neo-impressionismo”, al “Chiarismo”, alla grammatica della Scuola di Burano, all’esperienza dei “Pittori della Valigia”, finendo per alimentare la vulgata secondo cui Romagna, tutto Romagna, può essere letto, in buona sostanza, come l’epigone di Neno Mori, il maestro che il nostro autore ha sempre venerato e che a sua volta è stato troppo sbrigativamente incasellato fra gli ultimi artefici di un vedutismo prezioso, ma sostanzialmente “di maniera”.
Se la sottovalutazione di molti artisti veneziani della generazione di Romagna può imputarsi a un’avventura esistenziale e artistica troppo breve (è il caso di Bepi Longo), o a una (presunta) dissipazione delle energie (come per Boldrini), nel caso di Miro Romagna si potrebbe incolpare – per usare il gergo dell’aziendalismo corrente - l’assenza “di una gestione manageriale della sua immagine”.
Il che, in parte, è probabilmente vero.
La concezione dell’arte a cui Romagna ha aderito ed è rimasto fedele lo ha spinto a un fare incessante, a una produzione febbrile, che gli ha lasciato ben poco tempo, soprattutto a livello mentale, per cercare le grandi occasioni espositive, in particolare negli anni più recenti.
Non va trascurato, poi, che questo suo furor pingendi ha dato corpo all’immagine di pittore capace di produrre “un’opera al giorno”, trasportato da un’euforica immediatezza, per lo più interpretata quale facilità briosa ma superficiale. La scelta del fare presto, in realtà, è stata determinata da una tensione interminabile, che, come ha sottolineato Siro Perin, ha privilegiato la necessità di bloccare sulla tela il momento, “o meglio diversi momenti, che trasformano la realtà in un flash opalescente e quasi senza tempo”3.
Romagna è stato un virtuoso del tocco. Ha affinato il suo gesto caparbiamente, nonostante gli avvertimenti, spesso amichevoli, di valenti critici che lo hanno messo in guardia, fin dagli esordi, dall’ “accontentarsi di un prestigioso pittoricismo”4. Lo dice bene Perin: “Il suo pennello, muovendosi ora con tocchi veloci ora con lente scie, sembra trasformarsi in un fioretto, che, sapientemente vibrato da un abile spadaccino, trapunta la tela di luci, delicate velature e accattivanti cromatismi tonali. Queste caratteristiche, usate sapientemente con virtuosa armonia, ci regalano non la fisicità, ma la percezione sensoriale del soggetto, o per meglio dire la sua atmosfera”5. Lo aveva anticipato Paolo Rizzi, che annoverava Romagna nella schiera degli “schermitori della pittura” che va “da Hals a Boldini”6.
Non va trascurato, poi, il lato umano dell’artista, al quale la modestia, il riserbo, l’autocritica oggettivamente eccessiva, mai ammantata di ritrosie posate o penitenziali, hanno impedito di considerarsi un “grande pittore”. Del resto, se le sue opere donano a chi guarda serenità ed energia7, ciò dipende dal fatto che Romagna è stato uomo appagato, felice di fare “il mestiere più bello del mondo”8 e legato a Venezia, sua inesauribile fonte d’ispirazione, da un amore intenso e sensuale9.
Il gusto artigianale del mestiere e l’assoluta dedizione all’opera, proprie di un artefice “all’antica”, fedele all’adagio dell’ars longa e della vita brevis, confliggono con la ricerca della “trovata” che fa notizia e la cura di sé come “personaggio”; ingredienti, questi, necessari per il successo mediatico.
Per tale ragione è fondamentale ricostruire passo passo l’iter creativo di Miro Romagna, e comprenderne finalmente l’autentico valore.
Miro Romagna è noto per la chiarità larga, assorta e effervescente, dei suoi specchi d’acqua lagunari. Per l’effetto scenico e il dinamismo delle via via più ardite e sintetiche costruzioni prospettiche. Per le accensioni improvvise e quasi “automatiche” di colore puro. In realtà queste caratteristiche si stabilizzano solo a partire dalle opere degli ultimi Anni Settanta; non riassumono tutta la sua opera.
Per prima cosa, va detto che la produzione dell’artista, peraltro vastissima, che rivisita con grande libertà i generi classici e tuttavia accetta di organizzarsi dentro i perimetri di questi, non si limita al paesaggio. Ne è prova una lunga frequentazione della natura morta; ma esiste anche un Romagna ritrattista, importante, oltre che per la felicità della sintesi fisionomica, anche dal punto di vista documentario, dal momento che l’artista ha fissato i tratti di tanti artisti e intellettuali veneziani, a lui legati d’amicizia, molti dei quali oggi purtroppo scomparsi. Allo stesso modo non vanno sottovalutati gli studi di figura e la produzione sacra, che permettono di misurare la straordinaria capacità di disegnatore e di grafico.
I paesaggi veneziani degli anni Settanta e Ottanta, a cui si lega la sua più immediata notorietà sono, semmai, la sintesi di un percorso che, nel suo primo segmento, è stato pressoché dimenticato; la dice lunga, a questo proposito, l’emozione e l’entusiasmo suscitati dalla riproposizione dalle prove giovanili nella ricca antologica organizzata nel 2008 dal figlio Stefano presso la Scuola di San Teodoro.
È riemerso, nell’occasione, un altro Romagna, per il quale meno che mai vale l’etichetta della facilità e del mestiere consumato. Si è riaperto, fortunatamente, il problema del posizionamento storico della sua opera.
A proposito di problematicità: già osservando la Natura morta del ’46, ci si accorge della libertà linguistica di cui dispone l’artista allora appena diciannovenne. Si notano almeno quattro invenzioni: la linea rotta e slabbrata, che separa il piano d’appoggio degli oggetti dal fondo; la bottiglia dal collo lungo, risolta in termini monocromi e bidimensionali; l’oggetto (un imprecisato contenitore) ravvicinato, fortemente riassunto nella sua volumetria chiaroscurale; il fondo, disomogeneo per densità di materia, acceso di verdi e dinamizzato da una insistita sciabolata scura non denotativa.
Si dirà che l’impianto dell’opera è tradizionale, che i colpi di luce sulla zuccheriera e la brocca tradiscono un patetismo tardo-ottocentesco. Eppure il gioco dell’ombra nera, che si fa insieme cloison e volume, rimanda immediatamente a De Pisis: quel De Pisis che si stabilisce a Venezia, nel ben noto palazzetto di San Sebastiano, proprio negli anni in cui Romagna comincia a dipingere10, e che Romagna ha modo di incontrare, seppur fuggevolmente, grazie a Neno Mori.
A De Pisis, quale auctor di Romagna, fa riferimento, fra i primi, Claudio Savonuzzi, in occasione della personale bolognese del ’53 presso la Galleria del Voltone. Accanto a De Pisis, Savonuzzi aggiunge Iuti Ravenna11, iscrivendo il pittore agli esordi in una “linea” espressiva molto precisa.
Non è questa la sede per indagare il rapporto, stretto e fecondo, fra Ravenna e De Pisis, che sul piano del dare e dell’avere risulta tutt’altro che scontato12; ciò che importa sottolineare, invece, è come il giovanissimo Miro Romagna abbia saputo cogliere l’importanza di due grandi maestri “eccentrici” e colti, sensibili alle tematiche delle avanguardie eppure svincolati da ogni scuola e capaci di sintesi ardite, che tengono conto di elementi veneziani e francesi molto distanziati cronologicamente.
È un azzardo affermare che Ravenna abbia compreso Dufy e Tintoretto attraverso De Pisis? Difficile dirlo. Certo è che, fin dall’inizio, Miro Romagna, insofferente rispetto all’istituzione scolastica e per certi versi “autodidatta”13, “ora attratto dal plein air dei veneziani, ora da certa celebrata pittura francese”14, non appare affatto rinchiuso in una posizione di epigone e tanto meno di mestierante alla ricerca di una cifra da riproporre ad infinitum.
Lo provano gli esiti degli Anni Cinquanta.
Le opere del periodo compreso fra il 1949 e i primissimi anni del decennio successivo mostrano innegabilmente l’influenza di Neno Mori. Tuttavia Romagna è esente da applicazioni automatiche di una lezione pur importante. Soprattutto, va rimarcato che il riconoscimento dell’ascendenza del maestro di riferimento non convalida il giudizio che ha incasellato il “discepolo” come “neo-impressionista”, dal momento che lo stesso Neno Mori è difficilmente riassumibile come “impressionista” tout court: lo dimostrano il suo segno, rapido, nervoso, tranciante; le sottolineature scure, per alcuni aspetti avvicinabili alle stenografie di De Pisis; le asprezze dichiaratamente espressioniste; ma soprattutto la capacità, tutta personale, di rielaborare tanta parte della cultura pittorica veneta, che ha consentito a Mori di attingere con sicurezza dai Bassano, da Tintoretto, dal luminismo del Cinque, del Sei e del Settecento.
Ad ogni modo, a riprova della libertà di Miro Romagna rispetto a maestri e modelli, è sufficiente porre attenzione alla Festa campestre del ’53, esposta alla XLI Mostra Collettiva della Bevilacqua-La Masa, o il coevo Ballo sulla laguna, o l’ancora più fluido e ritmico La Premiére (ancora del ’53), nei quali è leggibilissima la suggestione di Dufy, soprattutto nella felice “sfasatura” fra le campiture e le silhouette che riassumono le figure, ridotte a guizzanti ectoplasmi. Appaiono, in questi testi così importanti e sicuri, alcune caratteristiche che saranno proprie del Romagna maturo: la valenza dello spazio, elemento già in queste prove autonomo e privo di connotazioni realistiche, e la coesistenza dialettica di stesure ampie e liquide e di brevi episodi di addensamento cromatico, che determinano il ritmo, ora sincopato, ora solenne e largo, assolutamente contemporaneo, della composizione. Compare anche una certa tendenza alla riduzione bidimensionale, che sarà l’elemento portante delle opere degli anni successivi.
Sulla linea dell’annullamento prospettico si pone Cà Da Mosto, del 1956, in cui l’architettura è considerata in quanto pura facciata, con gli ordini scanditi dalle finestre e dagli archi variamente sottolineati non in funzione realisticamente chiaroscurale ma invece esplicitamente ritmico-cromatica, mostrando assonanze con la lettura metonimica del dato veneziano propria dei Palazzi di Giuseppe Gambino; e soprattutto la Natura morta in grigio, del 1957 e La spiaggia, del ’59, opere concluse e particolarmente coraggiose. Recensendo la personale di Romagna alla Galleria Barbaroux di Milano, Raffaele De Grada rinvia questi esiti all’”influenza di Saetti”, accostando Romagna a Renato Borsato15 e individuando una liaison importante, su cui vale la pena di soffermarsi.
Da una parte, infatti, l’indicazione di De Grada implicitamente conferma che la bidimensionalità è un indirizzo stilistico che conquista a sé artisti di primissima grandezza e di formazione molto diversa (basti pensare, oltre che alla “conversione” veneziana di Saetti, all’approdo all’”idea spaziale” di Virgilio Guidi, o all’opzione anti-figurativa di Santomaso). Dall’altro, indica l’assonanza poetica del Miro Romagna “bidimensionale” alle soluzioni di artisti – come, appunto, Renato Borsato – che di lì a pochi mesi prenderanno posizione nell’ambito della querelle fra figurativi e astrattisti, pronunciandosi a favore della figurazione e animando la fragorosa Antibiennale del 1960. Giustamente Di Martino definisce la polemica fra astrazione e figurazione “annosa”16, dal momento che già un decennio prima si era determinata la spaccatura del Fronte Nuovo delle Arti con la conseguente nascita, sul fronte “astrattista”, del Gruppo degli Otto e, sul versante opposto, dell’aggregazione dei “realisti” attorno a Pizzinato.
È però indubbio che, nel corso degli Anni Cinquanta, la contrapposizione si estende e si fa capillare, rivelandosi acutamente anche nell’ambiente della Bevilacqua-La Masa che pure, nel dopoguerra, era stata “casa comune” di anime e generazioni differenti, punto di riferimento e d’incontro per “tutti”17. La tensione è tradita dalle parole del presidente dell’Opera, Diego Valeri, che, in occasione dell’inaugurazione della XLVII collettiva (1959) si sente in obbligo di dichiarare: « Il pubblico sia certo che non c’è stata, da parte della commissione, nessuna predilezione, tanto meno preclusione, per il figurativo o per l’astratto»”; aggiungendo tuttavia di rilevare “con personale soddisfazione” « che dei giovani di valore tornano al figurativo e s’impegnano a rappresentare la figura, da cui, a me pare, sia impossibile prescindere a chi voglia fare pittura »18.
Ne è prova, ancora più pregnante, la collettiva dei Sette pittori d’oggi, inaugurata nel giugno del 1960 presso l’Ala Napoleonica di Piazza San Marco, in cui espongono Saverio Barbaro, Renato Borsato, Giuseppe Gambino, Alberto Gianquinto, Riccardo Licata, Cesco Magnolato e Giorgio Dario Paolucci. Ne sono curatori Pietro Zampetti, Soprintendente alle Belle Arti, e Guido Perocco, direttore di Ca’ Pesaro, a cui l’Opera Bevilacqua La Masa è connessa fin dal lascito della duchessa Felicita, risalente al 1902.
L’intento manifesto dell’esposizione è dar vita a un’”Antibiennale”, in contrapposizione alla XXX edizione ufficiale, caratterizzata dalla presenza a senso unico dell’astrattismo, considerato oramai “arte ufficiale”, accademico “conformismo dell’anticonformismo imperante”19. Che la questione sia tutt’altro che marginale o sentita soltanto dagli addetti ai lavori, è testimoniato dall’ampia eco che l’esposizione veneziana ha trovato sulla stampa nazionale di quei giorni20.
È indebito considerare l’”Antibiennale” del ’60 un discrimine assoluto, una definitiva e univoca indicazione di percorso: lo prova l’evoluzione nel tempo del linguaggio degli espositori. È però troppo severa e ingenerosa la lettura che se ne continua a dare, come di un evento retrogrado e reazionario, contrapposto a una Biennale che, al contrario, “registra con tempismo ed energia le novità di ambito internazionale e che ha documentato alla fine degli Anni Cinquanta lo stato delle cose nel panorama dell’Informale”21.
In realtà, come avevano ampiamente evidenziato Guido Perocco e Pietro Zampetti nei rispettivi saggi presenti nel catalogo dell’esposizione, l’opzione figurativa dei Sette è tutt’altro che provinciale o ottusa: è piuttosto un’apertura a ventaglio di linguaggi, molto differenti fra loro, ciascuno dei quali si codifica metabolizzando le lezioni di maestri antichi e dei contemporanei, da Bonnard a Picasso, da Braque a Nolde, da De Staël ai Fauves, da De Kooning a Munch e Beckmann, senza scordare l’imprescindibile Tintoretto (magari riletto attraverso Kokoschka, fra i protagonisti della Biennale del ’48) e, più in generale, la pittura atmosferica veneziana22: un modus operandi che ha tutti i crismi della ricerca, posta però sotto il segno dell’autonomia individuale, svincolata dalle contrapposizioni che, da estetiche, diventano ideologiche. Dal totalitarismo intellettuale delle avanguardie.
Se ci si è soffermati su quest’episodio, è perché esso ha consentito il manifestarsi forte di una variegata poetica della realtà che non interessa soltanto i Sette espositori, ma consistente parte di una generazione – quella di Miro Romagna, che è coetaneo dei “ribelli” dell’Ala Napoleonica - per la quale aderire a un’idea di “figuratività” non è affatto scontato. Attraverso l’esposizione dell’Ala Napoleonica si esplicitano gli indirizzi di una pittura che rifiuta di dirsi astratta non perché abbia giurato fedeltà al principio di rappresentazione, ma perché non intende rinunciare all’”emozione del reale”, all’emergenza della circostanza poetica, al “piccolo fatto vero”.
Non sapremmo dire se, in occasione dello scontro del 1960, Romagna abbia preso attivamente una parte. Certo è che, al di là dell’amicizia personale che lo ha legato a Renato Borsato e Saverio Barbaro, le opere della seconda metà Anni Cinquanta vivono della temperie ideale che troverà pronunciamento nell’“Antibiennale”. Con Barbaro, Romagna condivide l’aderenza alla quotidianità lagunare, al particolare urbano, che consente, più della veduta, di impaginare con precisione, concentrandosi sui fatti pittorici, per cui Barbaro risulta più severo e tonale, Romagna più disomogeneo e nervoso, evidenziando l’alternanza di annotazioni “dal vero”, accenti grafici e sintesi spaziale. Con Borsato, Romagna condivide lo slancio lirico, la costante “doppia marcia” tonale-antitonale dei celesti, dei verdi e dei blu talora accesissimi; ma anche le inquietudini formali.
Sarebbe fuorviante pensare a un Miro Romagna appena trentenne e già “risolto”; impermeabile, ad esempio, alle tante suggestioni “espressioniste” che percorrevano allora la giovane arte veneziana.
Di un Miro Romagna per nulla acquietato e scontatamente solare ci dice, con la consueta attenzione, Paolo Rizzi, ricordando “un burbanzoso autoritratto in controluce” del 1957, “costruito con una massa scura dirompente, che ricorda il Permeke visto l’anno prima alla Biennale.” E di “una nave massiccia colta con scorcio ardito a Marghera” e ancora “di una natura morta «in grigio», così brulicante e quasi spasmodica nei suoi riflessi prensili”. Conclude Rizzi: “Il parallelo con la pittura milanese del tempo è sorprendente”. Si riferisce ai giovani milanesi coetanei di Romagna (Guerreschi, Ferroni, Banchieri, Vaglieri, Romagnoni, Ceretti), a cui “Valsecchi ha appiccicato un’etichetta che è rimasta: Realismo esistenziale23.
Per capire quanto l’annotazione sia acuta, basta osservare la Natura morta con figura, del 1959. Ma non vanno sottovalutate le Nature morte e l’Autoritratto del ’50: prove severe, pastose, di ascendenza neocubista. E l’essenziale Scalo di Sedico-Bribano del ’54. O la Nave vikinga del ’56, addirittura “sironiana”. E la serie, quasi sconosciuta, dei Laghi, derivata da un breve ma fruttuoso soggiorno in Svezia, nel 1959.

C’è, insomma, una totale disponibilità a mettersi in discussione, nel Miro Romagna degli Anni Cinquanta e dei primi Sessanta. Le inquietudini si concretizzano, soprattutto, nel cambio di tavolozza, marcato anche se non repentino, che tralascia la poesia degli azzurri per andare alla scoperta dei rossi, dei bronzi, degli ocra, dei seppia, dei verdi cupi e dei grigi; a cui si appaia un’interessante discontinuità di temi.

Rizzi cita la Nave del ’59, monolitica nella sua costruzione volumetrica e prospettica. Ma molto interessate è anche la serie dei Tetti da Palazzo Carminati (1961), che è stato sede, per sei anni (dal ’56 al 62), dello studio assegnato a Romagna dall’Opera Bevilacqua La Masa. Nella serie dei Tetti, Romagna sperimenta l’irruenza gestuale e la materia ricca, che forzano l’impaginazione e annullano la distanza fra l’esterno (il paesaggio veneziano) e l’interno (la finestra dello studio), che fa da quinta allo sguardo. Dall’altra parte, organizza il movimento dei tetti per fughe prospettiche, segnate da ampi tagli obliqui e scuri. La Venezia dei Tetti non è più quella intima e fauve di qualche anno prima. Il passaggio intermedio, almeno a livello cromatico, è avvertibile in opere come Motivo sul mare del ’58, dove convivono sintesi geometrica e atmosfera “marina”, ma dove i colori dell’acqua e del cielo appaiono illividiti e raggelati.
Il Romagna che, a posteriori, appare più sorprendente è tuttavia è quello, monumentale ed estremo, di Fanghi Rossi (ancora 1961), opera violentemente atonale, segnata dal rosso del limo barenile e dai celesti “sparati” del cielo, solcati dai segmenti bituminosi delle macchine industriali.
Qui, davvero, la ricerca linguistica è indissociabile dal tema.
Quella “terraferma” che la pittura lagunare del primo Novecento aveva interpretato secondo una visione idilliaca o patetica ma comunque antica, quale “giardino di Venezia”, si ripropone, mutata, in tutta la sua inquietante alterità. La vitalità impetuosa dell’immediato entroterra, che in pochi lustri assume incontrollabili (e degradanti) connotazioni urbane, accentua lo choc derivato dall’ampliarsi dell’area industriale, già oggetto di indagine da parte dei pittori veneziani a partire dagli Anni Trenta, al tempo dell’edificazione del ponte translagunare.
Giustamente Nico Stringa riconduce le prove degli Anni Trenta e Quaranta di Eugenio Da Venezia, Fioravante Seibezzi, Luigi Scarpa Croce, Gigi Candiani, Armando Tonello a una sottovalutata “radice realista”, che prende origine dal verismo della seconda metà dell’Ottocento, persiste “nell’epoca del decadentismo e delle avanguardie”24 e costituisce l’ideale “preistoria” del Movimento realista, pur nel differente portato ideologico del Neorealismo, che ha il suo manifesto in Un fantasma percorre l’Europa di Armando Pizzinato.
D’altra parte, che le tematiche sociali abbiano interessato artisti assolutamente eterogenei è provato dalla presenza di veneziani “insospettabili” nella grande mostra Il lavoro nella pittura italiana, allestita nel 1950 presso l’Ala Napoleonica, nella quale, accanto a Birolli, Vedova, Afro e Guttuso, figurano opere di Aldo Bergamini, Guido Cadorin, Felice Carena e persino di Filippo De Pisis, tutte appartenenti alla raccolta di dipinti sul tema del lavoro di Giuseppe Verzocchi25.
E c’è ancora un’altra “linea”, assai meno nota, che sviluppa in Venezia “l’arte sociale”. È quello dei veneziani marginali, come Nane Pontini (si ricordino i Braccianti, i Pescatori, lo Spaccapietre degli Anni Cinquanta e le Cattedrali-Altiforni dei primi Anni Sessanta), Gustavo Boldrini (autore del Massacro di Hiroshima, dei Mendicanti in città e degli Ombrellai), Bepi Longo (che interpreta con grande forza visionaria non solo la venezianità minore, ma anche il paesaggio industriale), ma anche Girolamo De Stefani, Angelo Caramel e Bruno Colussi, tutti legati alla periferia “profonda” e proletaria di Cannaregio, confine estremo della Venezia “storica”26
Senza tener conto di questa temperie e delle vicinanze, delle amicizie, degli scambi continui fra coetanei, Fanghi Rossi risulterebbe difficile da comprendere. Così come risulterebbe “incongrua” la produzione della prima metà degli Anni Sessanta, che presenta capolavori come Il treno (1960), Porto Marghera (1961), Fabbriche di Porto Marghera (1964), ma anche come Girasole verde (1964), in cui Miro Romagna alterna prove cupe, quasi monocrome, tutte imperniate sull’uso sontuoso delle terre, degli ocra, dei grigi, degli antracite, accese da improvvisi colpi di bianco puro - come nel magistrale Industrie a Porto Marghera, del ‘65 - e prove che sperimentano la coesistenza di elementi liquidi, di tocchi leggeri, grafici, dinamici, e di imponenti costruzioni geometriche, che organizzano lo spazio in senso ritmico. C’è, in questa fascinazione per l’inorganico-meccanico, un’assonanza con il Pizzinato di Costruzione (1961-62) e, ancora più sorprendentemente, con il Vedova “costruttivista e futurista” sui generis dei primi Anni Cinquanta; il quale, nella dichiarazione di poetica del 1950, afferma: “Esiste una sensibilità geometrica, oltre a quella organica. Perciò si può vibrare tanto dinnanzi ad un nudo quanto dinnanzi a una macchina. Ogni oggetto può essere motivo di scoperta e di emozione”27.
Se ne accorge la critica del tempo: in occasione della mostra del ’60 presso la Bevilacqua-La Masa si parla della Venezia di Romagna come “immersa in un’estasi decadente ma viva”, resa con disincanto attraverso “la prospettiva del mondo industriale, ove Romagna ricerca l'atmosfera di orizzonti turbati dai profili mostruosi delle grandi macchine, intravvedute attraverso cieli inquinati, senza concessioni calligrafiche”, determinando una “realtà sofferta, arena di incomunicabilità, alienazione algebrica della nostra era meccanica, respingente”28.
Va sottolineato che l’adesione a tematiche diverse da quelle degli esordi non costituisce, per Romagna, un passaggio determinato dal puro “spirito del tempo”. Il cambio di registro tematico gli consente invece di ampliare l’orizzonte di indagine, liberandosi definitivamente dalla costrizione del soggetto “sublime”, per concentrarsi sull’autonomia dei valori pittorici e compositivi. Anche quando tornerà ai temi più squisitamente lagunari, porterà con sé questa sensibilità affinata: si veda il complesso e riuscito Motivo sul mare del ’65, in cui l’artista riesce a comporre la dialettica fra le geometrie strutturanti degli oggetti e l’inquieta vaporosità delle figure; ma si vedano anche le numerose riprese, anche recenti, del tema del lavoro e della modernità (valga per tutte la Vecchia Draga, del ‘96): la contaminazione di antico e moderno – nucleo ispirativo di molti paesaggi recenti - costituisce il dato connotante il Porto di Venezia, le Zattere di San Basilio e la Giudecca, in cui l’elemento industriale continua a fare da contraltare all’evocazione “mitica” di una Venezia atemporale.
In chiave di ritorni e ripensamenti vanno probabilmente lette le opere degli Anni Settanta. Per quanto Romagna non possa dirsi soggetto a significative crisi creative si scorge, nel corso di questo decennio, una sperimentazione per certi versi disordinata o, meglio, disinteressata a individuare una linea espressiva unica e coerente, quasi che l’artista sia alla ricerca di un autentico e immediato rapporto con il suo mestiere di pittore, capace di affrancarlo dalla tacita ansia di dover trovare sintonia con una contemporaneità, pur cercata negli anni giovanili e interiorizzata con consapevolezza e intensità.
Si tratta di una “sensazione”, che non siamo in grado di suffragare con prove incontrovertibili o testimonianze certe. Eppure sarebbe davvero difficile comprendere altrimenti la contiguità cronologica di un testo rarefatto e al limite del figurativo come Faro di Jesolo, del ’71, che mostra un esito tutto “di testa”, e della saporosa serie, corsiva e “istantanea”, dei ritratti degli amici (l’Eugenio Da Venezia, il Neno Mori, il Ritratto del pittore Domestici, di Giuseppe Turcato, dell’ amico Romeo…). Sarebbe altrimenti complesso associare l’autore di un’opera come Motivo sul mare del ’76, che cerca il fare grande nel paesaggio classico, di largo respiro e che, con l’inserimento dei nudi, arriva a evocare i concerti campestri rinascimentali e le bagnanti di Cézanne, pur riproponendo il tutto in chiave quotidiana e “anti-monumentale”; e il pittore che ama concentrarsi sull’opera di piccolo formato e che, seppur intento al lavoro di cavalletto indossando elegantemente giacca e cravatta, non disdegna di proporsi fra calli e rii come pittore en plen-air.
D’altra parte, è evidente la disomogeneità di gesto e di tocco che distingue, ad esempio, i Melograni (del 1978), dalla Primavera (del ’79), entrambe opere di proprietà del Museo d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro. Nei Melograni, il gusto del particolare, reso vivido attraverso un tocco insistito, molto grafico, rotto, disseminato e filamentoso e un’infinità di micro-accensioni del colore, dialoga con le pennellate piatte, larghe e astratte del fondo; nella Primavera, invece, c’è un ritorno alla sintesi veloce, alle soluzioni antiprospettiche, al turbinìo fauve degli Anni Sessanta.
Non vi è dubbio, considerando la produzione posteriore, e soprattutto le opere degli Anni Novanta, che è la prima delle due maniere ad essere maggiormente foriera di esiti futuri.
Un altro elemento colpisce, nelle opere degli Anni Settanta: l’attenzione puntuale, a cui già si è accennato, ai generi pittorici tradizionali; alla natura morta in quanto natura morta, al ritratto in quanto ritratto. Si potrebbe tentare di giustificare intellettualisticamente questa scelta, affermando – non senza ragioni – che il tema non è che un pretesto, e che il vero motivo del contendere è la qualità della pittura. Ma non dimentichiamoci che, nel verbo dell’ufficialità critica, gli Anni Settanta sono il tempo delle esequie della pittura. In un tale contesto, l’approdo a un dipingere ordinato secondo canoniche suddivisioni per soggetto ha qualcosa di urtante, di paradossalmente provocatorio. Non stupisce, pertanto, che il “tradizionalismo” di Romagna sia stata letto come l’espressione di un’incapacità di adeguamento, come la cocciuta e disperata resistenza ai tempi nuovi da parte di un pittore trincerato nell’inattualità.
Di vero c’è che, alla fine degli Anni Settanta, Miro Romagna effettivamente si avvia a diventare un pittore inattuale. Confermerà questa opzione negli anni successivi, e ne rimarrà fedele fino alla fine. Inattuale è la Pesca miracolosa, dell’86, così baluginante eppure così composto nelle sue linee strutturali. Inattuali sono le sempre ritornanti Edicole, affascinanti pagode meccaniche che ordinano e insieme squadernano prospetticamente i campi veneziani, sempre più fantasmatici. Inattuali sono le Nature morte, sempre più filanti, sempre meno connotative, sempre più accese e anti-tonali.
Nelle opere degli Anni Ottanta e Novanta davvero lo spadaccino Romagna si sfrena. La facilità-felicità del tocco viene esibita senza più remore.
È significativo il fatto che la critica, che accompagna le esposizioni dell’ultimo ventennio, si profonda in esercizi lessicali raffinati, sprechi le “brillantezze comatiche”, “i fremiti”, le “musicalità”, i “respiri”, le “vaporosità” e le “nostalgie”, per non evocare quello che appare un imbarazzante ripiegamento su modalità sapute e ripetute.
Certo, si insiste sul profondo legame che lega il Romagna più maturo alla “tradizione”: ma a quale tradizione si fa riferimento? Non è forse un modo elegante per ribadire che la sua pittura continua a dipendere dalla lezione delle scuole lagunari del Novecento?
Fra i pochi che hanno avuto il coraggio di uscire dall’ambiguità spicca Enzo di Martino, che in occasione della mostra al Centro San Vidal del 1987, colloca Romagna “nel solco di una grande tradizione che pare non avere ancora esaurito il ruolo della cultura figurativa in questa città”29.
Più esplicita l’annotazione di Paolo Rizzi, risalente a quattro anni prima : “la «linea» è quella che va da Tintoretto a Neno Mori, passando soprattutto per certi settecentisti nervosi come Giannantonio Guardi. Quindi freschezza di pennellata, scioltezza di segno, guizzi rapidissimi, fugace esistenzialità fenomenica” 30.
Ma ancora più ficcante e precisa è la lunga nota, sempre a firma di Rizzi, del marzo 1975, in cui il critico definisce Romagna “non un isolato, un prodotto di mera istintualità, né tantomeno un déraciné”, ma “uno degli spalti più avanzati di un filone storico della pittura veneziana”, avvertendo che la pittura di Romagna “cela un’aggregazione culturale che non sempre il lettore disattento (o meno informato) riesce a sceverare”. Per comprendere tutto questo – dice ancora Rizzi – “bisognerebbe andare indietro di secoli: capire cosa abbia significato per Giorgione e per Tiziano il disfarsi e il ricomporsi della forma attraverso il colore a olio, e quale forte quoziente simbolico ne sia derivato. Dai tortuosi meandri del Cinquecento veneziano nasce un senso tutto peculiare del colore… Da lì, da quel momento storico che diventa categoriale per la storia della pittura europea, parte una linfa che ha nutrito per secoli i pittori veneziani. Non è difficile risalire, ramo per ramo, fino ai Favretto, ai Milesi, e più avanti perfino ai Gino Rossi e ai Moggioli31.”
Per verificare quanto questi approcci abbiano profondità filologica, bisogna rileggere opere come Le bagnanti, dell’85, il Campo a Venezia, del ’93, La fontana e La darsena, del ’96; ci si accorge di come la fonte della pittura dell’ultimo Romagna sia da ricercarsi per davvero nelle Storie di Tobiolo di Gianantonio Guardi all’Angelo Raffaele, nell’Incendio del deposito degli olii a San Marcuola e nel Miracolo di un domenicano di Francesco Guardi, nei cieli azzurri o cerulei di Pittoni, nel segno fiammeggiante di Pellegrini, nelle sinuosità del Bencovich.
E non è un caso se lo stesso Romagna “sacro” del 2000 riprende più volte il tema dell’Angelo, svelando nei titoli che si tratta di un Omaggio a Piazzetta: il Piazzetta maturo, vorticoso e gradualmente più incorporeo della Gloria di San Domenico della Chiesa veneziana dei Santi Giovanni e Paolo, o quello fastoso e luminoso della pala dei Santi Domenicani della Chiesa dei Gesuati.
Miro Romagna ha avuto la fortuna di vivere una vita artistica lunga e piena fino alla fine: senza alcuna concessione retorica, si può affermare che è mancato con il pennello in mano. Il pericolo critico, in casi come questo, è di guardare con sufficienza e superficialità alle opere dell’ultimo periodo, considerandole a priori pleonastiche, frutto più di un abitudine che a una reale necessità espressiva.

Nel caso di Romagna non è così. Negli ultimi anni, l’artista è ossessionato dal tema della luce: una luce rarefatta, ora vespertina ora albicante, che si riflette sugli specchi d’acqua immoti e che trasforma le stesse cose evocate e figurativamente ancora riconoscibili in strumenti di riflessione e rifrazione. O baluginante di fuoco notturno. O teatralmente virata grazie a immaginarie gelatine monocrome. Un’ossessione che è giunta al punto di spingerlo a modificare radicalmente anche opere dei periodi precedenti, con successive cancellazioni e decostruzioni.

A fronte di questo smolecolarsi della materia, per il quale lo stesso artista faceva esplicito riferimento a Turner, Romagna non rinuncia alla struttura prospettica: anzi, gli ultimi paesaggi ne mostrano l’accentuazione paradossale, quasi fossero osservati attraverso un obiettivo grandangolare, che diviene quasi un fish eye. La struttura si irradia dal punto di fuga con veemenza, trascinando con sé frammenti di materia incandescente.
Si potrebbe dire che l’ultima invenzione del maestro sia stata proprio l’accentuazione esasperata del sempre presente elemento dinamico, l’introduzione di un “mosso” che da fotografico diventa cinematografico e di nuovo pittorico, repentinamente bruciando, avvicinando o allontanando le cose (è paradigmatico, in questo senso, Piazza Barche, del ’95), in un dialogo sorprendente fra elementi esplosivi e momenti di incisa fissità.
E tuttavia Enzo Di Martino, buon conoscitore delle ultimissime prove del maestro, ed in particolare dei tanti tableaux sacri e degli Studi di Angeli, che hanno accompagnato Romagna fino al 2006, lo saluta, dando notizia del decesso, definendolo “pittore tiepolesco” 32.
Un meritato riconoscimento. Ma soprattutto un invito esplicito ad abbandonare, una volta per sempre l’abitudine “di citare la cosiddetta «Scuola di Burano», perchè, a parte alcuni grandi personaggi, Miro Romagna ha certamente sopravanzato i limiti immaginativi ed esecutivi di questo pur rispettabile gruppo di pittori di tradizione, nel tentativo di ricollegarsi invece alla grande pittura veneziana” 33.
Un monito illuminante, che ci avverte che, per capire Romagna, bisogna comprendere il suo profondo, necessario legame con il passato, concentrandosi non sulle eventuali soluzioni di continuità, ma sulla pluridecennale rielaborazione di ciò che scelto come fondativo.
E che, in termini più ampi, costringe a misurarsi con una ridefinizione “regionalista” del contemporaneo, sia veneto che italiano, superando finalmente la lettura lineare e “progressiva”, che considera valevole e aggiornata soltanto l’accondiscendenza degli artisti ai paradigmi imposti dal presente globalizzato. 

Note


  1. Paolo Rizzi, Una pittura nostalgica e frenetica, 1991, in Miro Romagna 1927-2006, a cura di S. Romagna, DITRE GROUP, Padova, 2007, pag. 9

  2. Paolo Rizzi, cit., pag. 9

  3. Siro Perin, Introduzione a Miro Romagna 1927-2006, cit., pag. 5

  4. Raffaele De Grada, Arti plastiche e figurative, Giornale Radio Rai, 14 febbraio 1956

  5. ibidem

  6. Paolo Rizzi, Mostre d’arte: gli amici di Romagna, “Il Gazzettino”, Venezia 14 dicembre 1972

  7. Il colore mi assale d’improvviso, come un folletto. Crepita, frigge, ribolle: si espande dovunque. Mi par quasi che dai quadri saltelli fin sul pavimento dello studio in piscina San Samuele, dove mi sono recato per vedere i quadri di Miro Romagna. E’ come una sferzata di energia. Ne rimango inebriato”: ancora Paolo Rizzi, Una pittura nostalgica e frenetica, 1991, in Miro Romagna 1927-2006, cit.

  8. Siro Perin, Introduzione al catalogo Miro Romagna 1927-2006, cit. pag.5. Testimonianza raccolta nel corso dell’intervista audio-visiva realizzata nel novembre 2004, presso lo studio di Miro Romagna a Venezia.

  9. Io amo Venezia come se fosse una bella donna”: sono parole di Miro Romagna, raccolte nel corso dell’intervista audio-visiva sopra citata.

  10. De Pisis compra il palazzetto di San Sebastiano nel 1943 e vi si trasferisce pochi mesi dopo l’acquisto, lasciando Milano in seguito ai bombardamenti.

  11. Claudio Savonuzzi, Personale di Miro Romagna, “Il Resto del Carlino”, Bologna 22 giugno 1953

  12. A proposito delle frequentazioni veneziane di De Pisis, che già nel ‘26 e nel ’29 ha diviso con Ravenna l’atelier-abitazione presso Palazzo Carminati, Giovanni Paludetti insiste sull’immagine di Iuti Ravenna maestro di De Pisis, mente quest’ultimo impara a “lavorare alla veneziana”. Sulla questione, riletta attraverso le pagine critiche inedite di Paludetti, vedi la scheda dedicata a Ravenna redatta da Fabio Girardello, in La Collezione Maria Fioretti Paludetti, guida alla collezione a cura di F.Costaperaria e F.Girardello, Litografia C&D, Vittorio Veneto, 2002, pagg. 166-168

  13. Carlo Della Zorza, Presentazione, in occasione della 2° Personale alla Bevilacqua La Masa, Venezia, agosto 1954

  14. ibidem

  15. Raffaele De Grada, Arti plastiche e figurative, Giornale Radio Rai, 14 febbraio 1956

  16. Enzo Di Martino, Bevilacqua-La Masa 1908-1993. Una fondazione per i giovani artisti, Marsilio, Venezia, 1994, pag. 82.

  17. Si veda, fra gli altri, Ennio Pouchard, Spazialista, io?, in Spazialismi a confronto.Tancredi e Ennio Finzi, catalogo della mostra a cura di E. Dezuanni, G.Granzotto, E. Pouchard, Treviso, Museo di Santa Caterina, ottobre 2007- gennaio 2008, Grafiche Marini, Villorba, 2007, pag. 31. A proposito dell’ambiente della Bevilacqua La Masa nel dopoguerra, il testo raccoglie la testimonianza di Ennio Finzi: “…vi si trovavano Guidi, Saetti, Cesetti, Cadorin, De Luigi. Dopo vennero Bacci, Morandis, Gaspari, Vianello, De Toffoli, insomma coloro i quali erano stati i miei maestri di una generazione più vecchia”.

  18. Enzo Di Martino, Bevilacqua-La Masa 1908-1993. Una fondazione per i giovani artisti, cit. pag. 82.

  19. Franco Giliberto, I pittori dissidenti inaugurano l’Antibiennale, Venezia Notte, 4 giugno 1960.

  20. Un’ampia documentazione dell’eco mediatica dell’evento è contenuta in Fabio Girardello, L’antibiennale del ’60: una pagina da rileggere, in Sette maestri d’oggi 1960-2008, catalogo dell’esposizione a cura di Arte&Media e Flaviostocco, Castelfranco Veneto, 6-29 aprile 2008, Tipografia Cremasco, Castello di Godego, 2008.

  21. Così Nico Stringa, Venezia, in La Pittura nel Veneto, Il Novecento, tomo I, Electa – Regione del Veneto, 2006, pag.108. Un’ampia rilettura dell’evento è contenuta nei saggi di Fabio Girardello (L’antibiennale del ’60: una pagina da rileggere) e di Dino Marangon (Sette pittori d’oggi: quasi cinquant’anni dopo) in Sette maestri d’oggi 1960-2008, cit.

  22. Si veda Pietro Zampetti, Introduzione; e Giudo Perocco, Presentazione degli Artisti, in Sette Pittori d’oggi, catalogo della mostra, Ala Napoleonica, Piazza San Marco, giugno-luglio 1960, Stamperia di Venezia, 1960.

  23. Paolo Rizzi, Una pittura nostalgica e frenetica, 1991, in Miro Romagna 1927-2006, cit., pag. 9.

  24. Nico Stringa, Venezia, in La Pittura del Veneto, Il Novecento, tomo I, cit., pag. 83

  25. ivi, pag. 89

  26. Sui “pittori di Cannaregio” si veda Fabio Girardello, Bepi Longo. Le intermittenze del cuore, in Bepi Longo 1920 -1961, catalogo della mostra omonima a cura di F.Girardello e G. Pizzamano, Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, settembre-novembre 2008, GMV Libri, Villorba (TV), 2008

  27. Emilio Vedova, dichiarazione pubblicata nel catalogo Il lavoro nella pittura d’oggi. Settanta pittori della raccolta Verzocchi, a cura di G. Verzocchi, Milano, 1950

  28. Miro Romagna alla Bevilacqua La Masa, “Cronache Venete”, Venezia 1960, a firma “R.D.”

  29. Enzo Di Martino, Un omaggio di Venezia all’arte di Romagna, “Il Gazzettino”, 12 ottobre 1987

  30. Paolo Rizzi, Due belle mostre, Buso a Cà Pesaro e Romagna a San Vidal, “Il Gazzettino”, Venezia 18 settembre 1983

  31. Paolo Rizzi, nota a stampa firmata e datata “Venezia, marzo 1975”

  32. Enzo Di Martino, E' morto Miro Romagna pittore “tiepolesco”, Il Gazzettino, 19 giugno 2006

  33. Enzo Di Martino, Arte al centro San Vidal. Romagna, il sentimento della luce, Il Gazzettino, 10 dicembre 2006

 

Evocazioni emotive oltre ogni dimensione (Enzo Di Martino, 2008)
 

La distanza del tempo, anche se non ancora storico, consente una lettura diversa, un'occhiata più libera dai preconcetti, dell'opera di un artista. Miro Romagna (Venezia 1927-2006) è scomparsi da soli due anni a questa ampia mostra che gli viene ora dedicata dalla Scuola Grande San Teodoro consegna alla sua pittura una dimensione storica. Anche perchè egli è stato l'ultimo protagonista di una “scuola” che non esiste più e che, a ben vedere, non ha forse equivalenti in Italia.
E' un discorso già fatto altre volte a è evidente che la pittura “petit maistres” veneziani rivela sempre una stupefacente dignità formale che viene forse dall'onnipresente, naturale ed inevitabile confronto con la grande storia dell'arte della città. Vale naturalmente anche per Miro Romagna che, occorre ribadirlo in questa occasione, ha solo sfiorato la cosiddetta Scuola di Burano. I dipinti degli anni Cinquanta sembrano infatti aver assimilato, forse istintivamente la lezione di Cezanne, mentre all'inizio dei Sessanta l'artista sembra avvertire perfino la drammaticità dei conflitti sociali del tempo. Come dimostrano opere quali il tenebroso “Treno” del 1960 o l'inquietante delle “Fabbriche a Porto Marghera” del 1964, dipinto nei quali i toni bruni delle strutture sono ravvivati da improvvise accensioni di fuochi bianchi.
Certo, negli anni della maturità Romagna dipinge ripetutamente la città e la sua laguna e, da autodidatta, frequenta l'ambiente dei pittori veneziani del tempo, con una particolare predilezione amicale per Neno Mori. Il suo particolare “gesto pittorico”, tuttavia, così rapido e sicuro, estremamente caratterizzato, lo porta a realizzare numerose nature morte e molti ritratti ed autoritratti. Affermando una personalità che, anche sul terreno puramente immaginativo, non vuole essere sole e semplicemente un “tardo vedutista”. E non è per caso che nel 2000 dipinge infatti un “Omaggio a Piazzetta”.
Naturalmente le sue accese vedute di Venezia e del paesaggio lagunare documentano in modo esemplare la sua concezione di pittura, affidata com'è alle specifiche qualità evocative del colore. Collocandosi all'interno di una lezione storica che sembra però arrivare dall'insegnamento del grande Turner, piuttosto che da quella dei “vedutisti” settecenteschi. Sfidando dunque il contemporaneo, pur con i mezzi della pittura e della tradizione.

Estratto da “La pittura veneta contemporanea tra tradizione e innovazione” (Siro Perin, 2004)
 

“Ho scelto il mestiere più bello del mondo”. Con questa frase il maestro Miro Romagna ha espresso la sua concezione dell’arte: una voglia irrefrenabile di dipingere, di creare, che ti conquista ogni giorno della vita, senza soddisfarti mai, e che ti spinge a ricercare qualcosa di nuovo, sempre con lo stesso entusiasmo. Appare chiaro, dunque, che per Lui dipingere è continua ricerca, continua emozione e continua gioia…
La pittura, dunque deve coinvolgere emotivamente prima di tutto l’artista stesso, che proprio da essa trae la voglia di andare avanti, anche nei momenti meno belli.
Il suo pennello, muovendosi ora con tocchi veloci ora con lente scie, sembra trasformarsi in un fioretto, che, sapientemente vibrato da un abile spadaccino, trapunta la tela di luci, delicate velature e accattivanti cromatismi tonali. Queste caratteristiche  usate sapientemente con virtuosa armonia, ci regalano non la fisicità, ma la percezione sensoriale del soggetto, o per meglio dire la sua atmosfera.
Ma cosa è l’atmosfera per Romagna? E’ il bloccare sulla tela con il colore un momento, o meglio diversi momenti, che trasformano la realtà in un flash opalescente e quasi senza tempo.
Così facendo, anche quando dipinge gli scorci veneziani, li trasforma e li fa diventare   magici, attraverso un sottile e ambiguo gioco che dà alla città una dimensione romantica e trasognata, ma al contempo immersa nella realtà. E quando afferma “Io amo Venezia come se fosse una bella donna” appare chiaro che é l’amore il sentimento con cui egli si accosta, in modo discreto e mai banale, alla propria città.
Amore, grazia, leggiadria e freschezza ritornano nelle nature morte o nelle altre composizioni, dove il pittore inserisce anche piccoli elementi come carte di caramelle o oggetti quotidiani, per arricchire l’opera  di  maggiori sensazioni visive ed emozionali.
Romagna è senza dubbio uno dei più grandi continuatori del nostro tempo del tonalismo veneto, che tanto ha dato alla Storia dell’Arte mondiale; ma, grazie alla sua raffinata sensibilità, è riuscito ad assicurarne la continuità, facendovi emergere la dimensione felice e gioiosa. 

Le anime segrete di Venezia nella pittura di Miro Romagna (Egidio Bergamo, 2002)
 

Miro Romagna è pittore tra i più significativi del “Chiarismo veneziano” post-impressionistico.  E’ forse l’ultimo grande testimone di un’epoca e di una scuola alla quale si attesta l’arte veneto-lagunare, del primo, e parte del secondo, novecento.
Veneziano, classe 1927, Miro Romagna, versatile qualità endogene, è sospinto da perenni entusiasmi giovanili con il piglio della ricerca e dell’introspezione artistica.
Iniziò a dipendere da ragazzino osservando importanti pittori al cavalletto, appostati  in suggestivi angoli di Venezia. Artisti come Filippo De Pisis, Marco Novati, Carlo Cherubini ed altri, e Neno Mori, del quale fu allievo privilegiato per alcuni anni.
Da tutti, Miro Romagna assimilò una straordinaria proprietà di linguaggio espressivo e la problematica cromatico-luministica. Due aspetti, questi, che costituiscono l’essenza della sua pittura, godibile nelle mirabili vedute veneziane.
Cominciò ad esporre a 15 anni con un’opera, nella collettiva del 1942, tenuta nella Sala Napoleonica insieme ai maggiori pittori veneziani di allora. Pensate la Sua opera fu esposta tra due maestri quali Cadorin e Dalla Zorza.
Ne seguirono numerose altre esposizioni, in Italia e all’estero, conquistandovi consensi e premi, ed ospitalità in musei nazionali. Mostre che segnarono il percorso culturale di un artista in cammino verso sempre nuove esperienze.
Il suo è ancor oggi un dipingere gioioso di vedute lagunari trasfigurate nelle atmosfere cangianti ed angoli di una Venezia minore, omaggio alla storia nel pulsare dei ricordi. E poi nature morte e fiori e visioni sacre: un mondo animato dalla reinvenzione fantastica.
Le sue pennellate sono palpitanti e nervose, ed il gesto vibrante nella levità del tratto sospinto da una tecnica incantevole.
Sul piano strutturale, l’interesse maggiore dell’artista è quello di cogliere le anime segrete di Venezia nella luminosità sfuggevole. E’ l’aspetto maggiore che si coglie maggiormente nelle opere di questi ultimi anni. Sono per lo più vedute veneziane sostanziate nell’emotività espressiva di movimenti diversi che vanno dalla vibrante atmosfera romantica iniziale, alla rarefazione tonale di visioni in cui la luce e il colore si compenetrano sottilmente nell’aria dei riflessi infiniti, per confluire nell’esplosiva accensione dei colori puri.
Miro Romagna è stato tra i più significativi pittori del “Chiarismo veneziano” post-impressionistico, e forse l'ultimo grande testimone di un epoca e di una scuola alla quale si attesta l'arte veneto-lagunare del primo e parte del secondo Novecento.

Personale di Miro Romagna alla Galleria “Luigi Sturzo” di Mestre. (Giulio Gasparotti, 2001)
 

La proposta di una buona scelta delle opere più belle di Miro Romagna, che rappresentano alcuni momenti della sua storia pittorica, ci è sembrata la più idonea per l'inaugurazione della nuova stagione espositiva. La mia presentazione è, o potrebbe essere, inutile: l'attenta considerazione dei quadri esposti vale molto di più di un discorso o di un catalogo.
L'esperienza insegna che un modo di esprimersi, un linguaggio formale, si sviluppa allorquando l'artista riesce a creare un proprio stile, trasformandone la radice in qualcosa di diverso. Di caratteristico, di valido.
Nel caso di Miro Romagna, la radice è la pittura veneziana, comprovata dal ritmo della pennellata e dei colori, divenuti sulla tela sostanza di poesia e strumento creativo, i segnali attraverso i quali l'ambiente si fa riscoprire.
Esistono vari sistemi di dipingere il cielo, per pensare uno scorcio, per considerare una veduta, per fermare una iconografia mutevole che non trascuri la verità del dato oggettivo. Ma a Romagna basta un frammento di realtà concentrato in tonalità morbide e dosate, in grado di racchiudere e rappresentare lo spirito del tempo, del luogo, dello spazio creato dall'arte, per dare ordine e senso al rapporto realtà-sensazione-espressione.
E tra referenti, riscontri e fughe fanno la loro comparsa l'emozionalità e la tensione, gli equilibri e la sintesi di forme sciolte e vivaci, i piani e le zone di colore, i segni e i profili, accostati secondo una libera trascrizione, fedele d'opera in opera, dal profondo senso cromatico e tonale, per il quale ogni colore vibra accostato ad un altro, andante e mosso come in musica, in luci e atmosfere.
Si può ben dire, che Romagna è riuscito a selezionare gli elementi e i colori per saltare i caratteri emergenti ed emblematici dell'ambiente, in una declinazione personale, non rigidamente incasellata, perchè determinata quanto e come riaffiora in una dimensione interiore dopo averla assimilata nella dimensione reale. Il colore si inserisce così con funzione anche materica e il paesaggio diviene cultura di natura e di ambiente e genera o inventa il suo colore, solcato da lume di luce su orizzonti che scivolano prima di fondersi in sinfonie policrome irripetibili, perchè tutto è luce e colore, tutto è tema e interpretazione.
Rivive, Romagna, senza dubbi, i presupposti dell'Impressionismo però con disinvoltura e genialità venete e con curiosità intellettuale.
C'è lo studio dal vero, ma anche il distacco dal vero e la tipologia impressionistica non elude un tocco espressionistico là dove l'immagine sembra scolpita e a volte un tantino scorticata  dalla stenografia del segno.
Ogni quadro perciò è un incontro riuscito tra i molteplici e inventabili aspetti del visibile, con un gusto brioso dei contrasti, dei risalti formali, di vivacità spaziale, in efficace rispondenza tra forma e contenuto, di pronta combinazione per una lettura indirizzata a cogliere le deviazioni laser, come dice oggi, del paesaggio.
E' il tempo veneziano il risvolto occulto di questa pittura che segue il reale in filigrana con l'immaginario.

Miro Romagna, artista “vecchio e nuovo” (Paolo Tieto, 1999)
 

Da quasi mezzo secolo ormai Miro Romagna si propone agli appassionati e cultori d'arte con le proprie opere, con tanti dipinti che continuamente realizza ispirandosi ai soggetti più diversi, dalle vedute paesaggistiche ai ritratti, ai fiori, alle nature morte e ad altri assunti ancora. Immagini contrassegnate sempre da tratti rapidi e decisi , ma più ancora da colorazioni cariche di luminoso vigore, squillanti.
E' una pittura, a ben guardarla, di tradizione e di straordinaria modernità insieme. Del passato richiama infatti le gamme cromatiche proprie dei grandi maestri, della consuetudine veneta; del nostro tempo presenta invece  la pennellata spigliata e rapida, l'estrema sintesi dei contenuti. Peculiarità dovute ad una specifica indole, ma accresciute e completate anche da costante dedizione, da applicazione e da fermi propositi di progressivo miglioramento, di sempre ulteriori conquiste. E questo non soltanto sull'esempio dei sommi maestri del passato, ma sulla stessa scia di tanti artisti contemporanei, dei molti pittori che ancora in questo secolo, e fino ai nostri giorni, hanno tenuto viva la tradizione artistico-figurativa di Venezia.
Sì, Miro Romagna non è pittore veneziano solo perchè è nato nel capoluogo lagunare e perchè tantissime volte ne riporta in tavole e tele, calli, rii, campielli, specchi d'acqua e nobili architetture, ma per il fatto piuttosto che di questa città egli sa cogliere sottilmente tutto gli aspetti più diversi, i fremiti e respiri, gli umori, il suo stesso essere intimo. Sono gli elementi che questo artista fa propri da sempre, assorbendoli e quindi sedimentandoli nel proprio io intimo.
Per tale ragione, nei dipinti di Miro Romagna aleggia puntualmente un clima magico, le atmosfere sono trasparenti, vi si trova un carattere festoso, si percepisce quasi il tipico, acre profumo della salsedine lagunare, tutta una gaia musicalità. Mai le sue raffigurazioni costituiscono un fatto meramente estetico; dietro alle forme oggettive palpita regolarmente una straordinaria forma vitale che conferisce a quanto effigiato, fremiti di vita, voce viva, dialogo con chi si pone di fronte. Non rappresentano pertanto esse un semplice episodio, pur sempre apprezzabile, di esclusiva piacevolezza, ma propongono piuttosto argomentazioni per avvedute riflessioni, per ampiamento di conoscenze, per un arricchimento conoscitivo ed emotivo personale. E' quanto del resto si ritrova negli intenti della vera arte, fonte di autentici valori, guida ed alimento di ogni persona, di ogni essere che ami e quindi tenda continuamente a migliorare sé stesso, a crescere in quella che è la propria individualità.

Una pittura nostalgica e frenetica (Paolo Rizzi, 1991)
 

Il colore mi assale d’improvviso, come un folletto. Crepita, frigge, ribolle: si espande dovunque. Mi par quasi che dai quadri saltelli fin sul pavimento dello studio in piscina San Samuele, dove mi sono recato per vedere i quadri di Miro Romagna. E’ come una sferzata di energia. Ne rimango inebriato. Giro gli occhi intorno e dai quadri emana sempre questo colore acceso, fresco, che scorre come una cascatella. La pittura di Romagna è così: ti riempie gli occhi, ti eccita il cuore. Credo che la natura morta, più che il paesaggio, sia il motore che genera il colore di Romagna. Davanti ad un mazzo di fiori, davanti agli oggetti posati sul ripiano, davanti alla frutta o ai pesci, scatta la molla. Con un polso che par discendere da Boldini o da Zuloaga, da Favaretto o da Neno Mori, l’artista veneziano raccoglie le briciole di una fenomenicità visiva che deriva, alla lunga, dal gusto impressionistico. E’ un impossessarsi goloso e avido dell’aria, della luce, dell’atmosfera. In questo senso Romagna è un autentico spadaccino della pittura: il suo gesto è veloce, addirittura frenetico, ma pur sempre preciso, puntuale. Il diapason timbrico nasce da una sorta di nido tonale, fatto di lievi screziature di colore. E’ da là, cioè dall’alveo del tonalismo veneto, che il fuoco d’artificio sale verso l’alto, irrorando gli oggetti e travisandoli con felice improvvisazione.
Trovo nello studio una serie di nature morte molto belle. Sono nella linea ben risaputa, ma mi pare più serrate e compatte, cioè più mature. Il colore non è quasi mai disperso: si coaugula in tocchi puntuali, sul fulcro del godimento visivo. Non importa che questi quadri discendano da un filone di gusto, risalgano cioè a maestri più o meno recenti. Mancano di caratterizzazione stilistica? Rimangono nell’ambito di una improvvisazione puramente sensuale? Non direi. Romagna ha un tale polso, così autonomo e fiero, da reggere i confronti con gli antecedenti storici. E’ uno dei pochi maestri della pittura veneta intesa in accezione luministico-gestuale (alla Tintoretto più che alla Tiziano, per esemplificare). Ogni quadro è un’invenzione, un impromptu musicale. Occorre guardare alla qualità, anzitutto. Certi bozzettini di paesaggi, dipinti di getto in Dalmazia, sono incantevoli. Insomma, Romagna a sessant’anni tiene splendidamente: direi che è all’apice. Sul piano della pittura-pittura teme pochi confronti.
Poi, ecco che mi trovo davanti agli occhi qualcosa di diverso. Sono alcune vedute della Venezia minore: scorci di campielli, di corti nascoste, un’edicola. Non muta il gesto, muta l’intonazione cromatica; e quindi anche il timbro sentimentale. Via i colori brillanti: via la parata dei gialli violenti, dei blu accesi, dei rossi che gridano. Dominano invece i toni azzurrini-violetti, che si stemperano con ocra dorati e bruni schiariti. Romagna tenta un genere che, d’altronde, gli era abituale fin dagli anni Sessanta: quello dell’atmosfera. E’ un’atmosfera lievemente romantica, quasi malinconica, con fasci di luce imperlata che tolgono fisicità alle cose, le impregnano di una rugiada sottile, madreperlacea, fatta di mille trasparenze. L’occhio, dapprima adusato agli impatti della luce-colore, ora indugia nelle smorzature, è preso dai mezzi toni, segue la cadenza delle pennellate strisciate che scivolano via morbidamente. Anche in talune nature morte è una simile intonazione, che definirei romantica, fatta di intimismo e di tenerezza.
Due diversi Romagna? No. Piuttosto mi trovo di fronte, alternativamente, ad un Romagna estroverso, brillante, eccitato, e ad un Romagna introverso, trasognato, quasi timido. E’ lo stato d’animo che è cambiato. La pennellata resta infatti sempre nervosa, fremente: è il colore che, simbolicamente, ha mutato accento. Un velo di sottile malinconia avvolge il pittore ormai non più giovane. Altri amori sopravvengono a guidare il suo pennello: magari quelli per uno Chardin, per un Corot, per un Carena. La musica si fa dolcemente elegiaca, con momenti di incantamento, quasi dì estasi. Direi che si tratta di due momenti complementari. Già in passato, come s'è detto, i due momenti si sono susseguiti a fasi; ed il secondo s’è presentato come una sorta di rivincita sul “far brillante” della maniera più nota (e più apprezzata dal pubblico). Una rivalsa; ma anche un desiderio di toccare gamme espressive più vaste.
Ora Romagna è un uomo ancor più tranquillo, chiuso nel suo mondo. Pur conservando un certo animo da fanciullo, una ingenuità di fondo che è il dato più simpatico del suo carattere, sa di potere e sapere uscire dalla maniera. Dietro di sé ha una lunga carriera (si pensi: esponeva nel 1942, a poco più di quindici anni, in Sala Napoleonica proprio accanto ad un maestro come Cadorin!) ma davanti c’è anche una intatta gioia di vivere: un gusto di assaporare le cose, di gustarle fin nel loro succo più interno. Lo spadaccino non ha perso la grinta: è comparso qualche capello bianco, ma è sintomo di saggezza. Le note romantiche s’accoppiano alle note brillanti. La musica - ed è quello che importa - è sempre intonata. Il registro tiene magistralmente. (1987)
Tra l’ieri e l’oggi: tra le nostalgie di una bellezza a lungo contemplata e l’immagine che aspetta freneticamente di essere toccata dal pennello. L’occasione per rivisitare la pittura di Miro Romagna è data dall’attuale mostra nel monumentale spazio di San Vidal. Sono passati quindi quattro anni dal precedente scritto. Cosa è mutato? Apparentemente nulla. Il sentimento del colore è rimasto nel suo alveo incandescente, tra guizzi e sprazzi, tra sfumature e colpeggiature. L’oggetto continua ad essere amato quasi passionalmente, quindi travisato, riportato ad un mondo ormai visionario, pur legato spasmodicamente al dato reale... Ma è la coscienza di una posizione estetica che s’è fatta avanti, discretamente. Il tempo accumula; e accumulando può rinvigorire o svigorire i frutti. E’ il momento di rivedere, sia pur nel contesto prevalente della pittura d’oggi, anche uno squarcio del passato. Rivediamolo, in sintesi, sulla falsariga dì alcune opere oggi esposte.
La partenza, in questo viaggio a ritroso, è dal 1956. In quell’anno Romagna partecipa al prestigioso Premio Marzotto vincendo (è un caso clamoroso per un giovane) il terzo premio. Rammemoriamo: primo un maestro come Felice Carena, secondi ex aequo Crippa e Dova, terzi ex aequo Pirandello e Romagna. Una selezione del Premio viene esposta a Milano alla Permanente; segue, poco dopo, una mostra personale in una galleria rinomata come la milanese Barbaroux; quindi un’altra personale, stavolta a Venezia, alla Bevilacqua La Masa. Come dipingeva, allora, il ventinovenne Miro? Ecco a San Vidal alcuni exempla. C’è un grande interno di cortile, proprio di quell’anno: dipinto con una forza asciutta e serrata, pur nella trasfigurazione già allora tipica del colore. C’è (del 1957) un burbanzoso autoritratto in controluce, costruito con una massa scura dirompente, che ricorda il Permeke visto l’anno prima alla Biennale.
E poi una nave massiccia colta con scorcio ardito a Marghera; ancora una natura morta “in grigio”, così brulicante e quasi spasmodica nei suoi riflessi prensili.
Il parallelo con la pittura milanese del tempo è sorprendente. Proprio qualche mese fa si è chiusa, alla Permanente, una mostra che ha fatto versare fiumi d’inchiostro: quella dei giovani milanesi coetanei di Romagna: i Guerreschi, Ferroni, Banchieri, Vaglieri, Romagnoni, Ceretti. L’etichetta che aveva loro appiccicato Valsecchi è rimasta: “Realismo esistenziale”.
Quei giovani di allora sono diventati dei maestri: vi si riconosce la fase più tesa e autentica del passaggio dalle secche dell’informale a quella che si chiamava genericamente Nuova Figurazione. Prima dell’avvento della Pop Art e dell’Oggettualismo, quella pittura ha segnato un’epoca: ha espresso proprio la disperante volontà di rappresentare un mondo in trapasso, in cui i problemi più profondi, anche psichici, dell’uomo prendevano il sopravvento su formalismi o ideologie.
Ebbene, Romagna era lì, con una forza non soltanto pittorica (cioè anche morale) che lo allineava ai coetanei milanesi. Allora (dal 1956 al 1962) era ospitato a Palazzo Carminati, negli studi sotto il tetto dell’antica e sempre giovane boheme veneziana: con lui erano i Barbaro, i Borsato, i Domestici, i Magnolato... Quando ci si deciderà a tratteggiare, in un libro o in una mostra, quel periodo, si vedrà la connessione con il “realismo esistenziale” milanese e con altri gruppi italiani, e si capirà come, sotto lo stesso segno acre e risentito, covasse nei veneziani una temperie cromatica tutta particolare: quella che, appunto, Miro Romagna ha espresso così magistralmente. Questo esposto ora a San Vidal è naturalmente un piccolo scorcio retrospettivo: piccolo ma significativo. Esso precede di una trentina d’anni e più le pitture attuali, formando con esse un raccordo. Da allora una cosa è cresciuta, in Romagna: la felicità del colore. Finiti i tempi in cui covava una sorta di malessere dei giovani, è venuto fuori il côté autentico di Romagna. E’ la pittura di cui scrivevo quattro anni fa: immutata nella sua fragranza. Ecco una natura morta con zucca e fiori, così fremente e sfatta, golosamente protesa alla nostra sensualità; ecco una veduta del Bacino San Marco rivissuta alla Turner, cioè in un bagliore incandescente di forme visionarie; ecco un delicato paesaggio innevato, dove i bianchi giocano a rimpiattino con finezza; ecco un canale della Giudecca che invece scatta sciolto e sintetico nella sua prospettiva dinamica; ecco un paesaggio del mare istriano colto dall’alto come un’apparizione improvvisa, un bagliore di luci che stordisce... Insomma, Romagna non ha perduto il suo “polso”.
Il dialogo tra ieri e oggi, tra nostalgia e frenesia, continua. La pittura diventa un incantamento, una magia: un giuoco, come diceva Diego VaIeri, di Fata Morgana.