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Cenni Critici
 

Evocazioni emotive oltre ogni dimensione (Enzo Di Martino, 2008)

La distanza del tempo, anche se non ancora storico, consente una lettura diversa, un'occhiata più libera dai preconcetti, dell'opera di un artista. Miro Romagna (Venezia 1927-2006) è scomparsi da soli due anni a questa ampia mostra che gli viene ora dedicata dalla Scuola Grande San Teodoro consegna alla sua pittura una dimensione storica. Anche perchè egli è stato l'ultimo protagonista di una “scuola” che non esiste più e che, a ben vedere, non ha forse equivalenti in Italia.
E' un discorso già fatto altre volte a è evidente che la pittura “petit maistres” veneziani rivela sempre una stupefacente dignità formale che viene forse dall'onnipresente, naturale ed inevitabile confronto con la grande storia dell'arte della città. Vale naturalmente anche per Miro Romagna che, occorre ribadirlo in questa occasione, ha solo sfiorato la cosiddetta Scuola di Burano. I dipinti degli anni Cinquanta sembrano infatti aver assimilato, forse istintivamente la lezione di Cezanne, mentre all'inizio dei Sessanta l'artista sembra avvertire perfino la drammaticità dei conflitti sociali del tempo. Come dimostrano opere quali il tenebroso “Treno” del 1960 o l'inquietante delle “Fabbriche a Porto Marghera” del 1964, dipinto nei quali i toni bruni delle strutture sono ravvivati da improvvise accensioni di fuochi bianchi.
Certo, negli anni della maturità Romagna dipinge ripetutamente la città e la sua laguna e, da autodidatta, frequenta l'ambiente dei pittori veneziani del tempo, con una particolare predilezione amicale per Neno Mori. Il suo particolare “gesto pittorico”, tuttavia, così rapido e sicuro, estremamente caratterizzato, lo porta a realizzare numerose nature morte e molti ritratti ed autoritratti. Affermando una personalità che, anche sul terreno puramente immaginativo, non vuole essere sole e semplicemente un “tardo vedutista”. E non è per caso che nel 2000 dipinge infatti un “Omaggio a Piazzetta”.
Naturalmente le sue accese vedute di Venezia e del paesaggio lagunare documentano in modo esemplare la sua concezione di pittura, affidata com'è alle specifiche qualità evocative del colore. Collocandosi all'interno di una lezione storica che sembra però arrivare dall'insegnamento del grande Turner, piuttosto che da quella dei “vedutisti” settecenteschi. Sfidando dunque il contemporaneo, pur con i mezzi della pittura e della tradizione.

Una pittura nostalgica e frenetica (Paolo Rizzi, 1991)

Il colore mi assale d’improvviso, come un folletto. Crepita, frigge, ribolle: si espande dovunque. Mi par quasi che dai quadri saltelli fin sul pavimento dello studio in piscina San Samuele, dove mi sono recato per vedere i quadri di Miro Romagna. E’ come una sferzata di energia. Ne rimango inebriato. Giro gli occhi intorno e dai quadri emana sempre questo colore acceso, fresco, che scorre come una cascatella. La pittura di Romagna è così: ti riempie gli occhi, ti eccita il cuore. Credo che la natura morta, più che il paesaggio, sia il motore che genera il colore di Romagna. Davanti ad un mazzo di fiori, davanti agli oggetti posati sul ripiano, davanti alla frutta o ai pesci, scatta la molla. Con un polso che par discendere da Boldini o da Zuloaga, da Favaretto o da Neno Mori, l’artista veneziano raccoglie le briciole di una fenomenicità visiva che deriva, alla lunga, dal gusto impressionistico. E’ un impossessarsi goloso e avido dell’aria, della luce, dell’atmosfera. In questo senso Romagna è un autentico spadaccino della pittura: il suo gesto è veloce, addirittura frenetico, ma pur sempre preciso, puntuale. Il diapason timbrico nasce da una sorta di nido tonale, fatto di lievi screziature di colore. E’ da là, cioè dall’alveo del tonalismo veneto, che il fuoco d’artificio sale verso l’alto, irrorando gli oggetti e travisandoli con felice improvvisazione.
Trovo nello studio una serie di nature morte molto belle. Sono nella linea ben risaputa, ma mi pare più serrate e compatte, cioè più mature. Il colore non è quasi mai disperso: si coaugula in tocchi puntuali, sul fulcro del godimento visivo. Non importa che questi quadri discendano da un filone di gusto, risalgano cioè a maestri più o meno recenti. Mancano di caratterizzazione stilistica? Rimangono nell’ambito di una improvvisazione puramente sensuale? Non direi. Romagna ha un tale polso, così autonomo e fiero, da reggere i confronti con gli antecedenti storici. E’ uno dei pochi maestri della pittura veneta intesa in accezione luministico-gestuale (alla Tintoretto più che alla Tiziano, per esemplificare). Ogni quadro è un’invenzione, un impromptu musicale. Occorre guardare alla qualità, anzitutto. Certi bozzettini di paesaggi, dipinti di getto in Dalmazia, sono incantevoli. Insomma, Romagna a sessant’anni tiene splendidamente: direi che è all’apice. Sul piano della pittura-pittura teme pochi confronti.
Poi, ecco che mi trovo davanti agli occhi qualcosa di diverso. Sono alcune vedute della Venezia minore: scorci di campielli, di corti nascoste, un’edicola. Non muta il gesto, muta l’intonazione cromatica; e quindi anche il timbro sentimentale. Via i colori brillanti: via la parata dei gialli violenti, dei blu accesi, dei rossi che gridano. Dominano invece i toni azzurrini-violetti, che si stemperano con ocra dorati e bruni schiariti. Romagna tenta un genere che, d’altronde, gli era abituale fin dagli anni Sessanta: quello dell’atmosfera. E’ un’atmosfera lievemente romantica, quasi malinconica, con fasci di luce imperlata che tolgono fisicità alle cose, le impregnano di una rugiada sottile, madreperlacea, fatta di mille trasparenze. L’occhio, dapprima adusato agli impatti della luce-colore, ora indugia nelle smorzature, è preso dai mezzi toni, segue la cadenza delle pennellate strisciate che scivolano via morbidamente. Anche in talune nature morte è una simile intonazione, che definirei romantica, fatta di intimismo e di tenerezza.
Due diversi Romagna? No. Piuttosto mi trovo di fronte, alternativamente, ad un Romagna estroverso, brillante, eccitato, e ad un Romagna introverso, trasognato, quasi timido. E’ lo stato d’animo che è cambiato. La pennellata resta infatti sempre nervosa, fremente: è il colore che, simbolicamente, ha mutato accento. Un velo di sottile malinconia avvolge il pittore ormai non più giovane. Altri amori sopravvengono a guidare il suo pennello: magari quelli per uno Chardin, per un Corot, per un Carena. La musica si fa dolcemente elegiaca, con momenti di incantamento, quasi dì estasi. Direi che si tratta di due momenti complementari. Già in passato, come s'è detto, i due momenti si sono susseguiti a fasi; ed il secondo s’è presentato come una sorta di rivincita sul “far brillante” della maniera più nota (e più apprezzata dal pubblico). Una rivalsa; ma anche un desiderio di toccare gamme espressive più vaste.
Ora Romagna è un uomo ancor più tranquillo, chiuso nel suo mondo. Pur conservando un certo animo da fanciullo, una ingenuità di fondo che è il dato più simpatico del suo carattere, sa di potere e sapere uscire dalla maniera. Dietro di sé ha una lunga carriera (si pensi: esponeva nel 1942, a poco più di quindici anni, in Sala Napoleonica proprio accanto ad un maestro come Cadorin!) ma davanti c’è anche una intatta gioia di vivere: un gusto di assaporare le cose, di gustarle fin nel loro succo più interno. Lo spadaccino non ha perso la grinta: è comparso qualche capello bianco, ma è sintomo di saggezza. Le note romantiche s’accoppiano alle note brillanti. La musica - ed è quello che importa - è sempre intonata. Il registro tiene magistralmente. (1987)
Tra l’ieri e l’oggi: tra le nostalgie di una bellezza a lungo contemplata e l’immagine che aspetta freneticamente di essere toccata dal pennello. L’occasione per rivisitare la pittura di Miro Romagna è data dall’attuale mostra nel monumentale spazio di San Vidal. Sono passati quindi quattro anni dal precedente scritto. Cosa è mutato? Apparentemente nulla. Il sentimento del colore è rimasto nel suo alveo incandescente, tra guizzi e sprazzi, tra sfumature e colpeggiature. L’oggetto continua ad essere amato quasi passionalmente, quindi travisato, riportato ad un mondo ormai visionario, pur legato spasmodicamente al dato reale... Ma è la coscienza di una posizione estetica che s’è fatta avanti, discretamente. Il tempo accumula; e accumulando può rinvigorire o svigorire i frutti. E’ il momento di rivedere, sia pur nel contesto prevalente della pittura d’oggi, anche uno squarcio del passato. Rivediamolo, in sintesi, sulla falsariga dì alcune opere oggi esposte.
La partenza, in questo viaggio a ritroso, è dal 1956. In quell’anno Romagna partecipa al prestigioso Premio Marzotto vincendo (è un caso clamoroso per un giovane) il terzo premio. Rammemoriamo: primo un maestro come Felice Carena, secondi ex aequo Crippa e Dova, terzi ex aequo Pirandello e Romagna. Una selezione del Premio viene esposta a Milano alla Permanente; segue, poco dopo, una mostra personale in una galleria rinomata come la milanese Barbaroux; quindi un’altra personale, stavolta a Venezia, alla Bevilacqua La Masa. Come dipingeva, allora, il ventinovenne Miro? Ecco a San Vidal alcuni exempla. C’è un grande interno di cortile, proprio di quell’anno: dipinto con una forza asciutta e serrata, pur nella trasfigurazione già allora tipica del colore. C’è (del 1957) un burbanzoso autoritratto in controluce, costruito con una massa scura dirompente, che ricorda il Permeke visto l’anno prima alla Biennale.
E poi una nave massiccia colta con scorcio ardito a Marghera; ancora una natura morta “in grigio”, così brulicante e quasi spasmodica nei suoi riflessi prensili.
Il parallelo con la pittura milanese del tempo è sorprendente. Proprio qualche mese fa si è chiusa, alla Permanente, una mostra che ha fatto versare fiumi d’inchiostro: quella dei giovani milanesi coetanei di Romagna: i Guerreschi, Ferroni, Banchieri, Vaglieri, Romagnoni, Ceretti. L’etichetta che aveva loro appiccicato Valsecchi è rimasta: “Realismo esistenziale”.
Quei giovani di allora sono diventati dei maestri: vi si riconosce la fase più tesa e autentica del passaggio dalle secche dell’informale a quella che si chiamava genericamente Nuova Figurazione. Prima dell’avvento della Pop Art e dell’Oggettualismo, quella pittura ha segnato un’epoca: ha espresso proprio la disperante volontà di rappresentare un mondo in trapasso, in cui i problemi più profondi, anche psichici, dell’uomo prendevano il sopravvento su formalismi o ideologie.
Ebbene, Romagna era lì, con una forza non soltanto pittorica (cioè anche morale) che lo allineava ai coetanei milanesi. Allora (dal 1956 al 1962) era ospitato a Palazzo Carminati, negli studi sotto il tetto dell’antica e sempre giovane boheme veneziana: con lui erano i Barbaro, i Borsato, i Domestici, i Magnolato... Quando ci si deciderà a tratteggiare, in un libro o in una mostra, quel periodo, si vedrà la connessione con il “realismo esistenziale” milanese e con altri gruppi italiani, e si capirà come, sotto lo stesso segno acre e risentito, covasse nei veneziani una temperie cromatica tutta particolare: quella che, appunto, Miro Romagna ha espresso così magistralmente. Questo esposto ora a San Vidal è naturalmente un piccolo scorcio retrospettivo: piccolo ma significativo. Esso precede di una trentina d’anni e più le pitture attuali, formando con esse un raccordo. Da allora una cosa è cresciuta, in Romagna: la felicità del colore. Finiti i tempi in cui covava una sorta di malessere dei giovani, è venuto fuori il côté autentico di Romagna. E’ la pittura di cui scrivevo quattro anni fa: immutata nella sua fragranza. Ecco una natura morta con zucca e fiori, così fremente e sfatta, golosamente protesa alla nostra sensualità; ecco una veduta del Bacino San Marco rivissuta alla Turner, cioè in un bagliore incandescente di forme visionarie; ecco un delicato paesaggio innevato, dove i bianchi giocano a rimpiattino con finezza; ecco un canale della Giudecca che invece scatta sciolto e sintetico nella sua prospettiva dinamica; ecco un paesaggio del mare istriano colto dall’alto come un’apparizione improvvisa, un bagliore di luci che stordisce... Insomma, Romagna non ha perduto il suo “polso”.
Il dialogo tra ieri e oggi, tra nostalgia e frenesia, continua. La pittura diventa un incantamento, una magia: un giuoco, come diceva Diego VaIeri, di Fata Morgana.

Miro Romagna, artista “vecchio e nuovo” (Paolo Tieto, 1999)

Da quasi mezzo secolo ormai Miro Romagna si propone agli appassionati e cultori d'arte con le proprie opere, con tanti dipinti che continuamente realizza ispirandosi ai soggetti più diversi, dalle vedute paesaggistiche ai ritratti, ai fiori, alle nature morte e ad altri assunti ancora. Immagini contrassegnate sempre da tratti rapidi e decisi , ma più ancora da colorazioni cariche di luminoso vigore, squillanti.
E' una pittura, a ben guardarla, di tradizione e di straordinaria modernità insieme. Del passato richiama infatti le gamme cromatiche proprie dei grandi maestri, della consuetudine veneta; del nostro tempo presenta invece  la pennellata spigliata e rapida, l'estrema sintesi dei contenuti. Peculiarità dovute ad una specifica indole, ma accresciute e completate anche da costante dedizione, da applicazione e da fermi propositi di progressivo miglioramento, di sempre ulteriori conquiste. E questo non soltanto sull'esempio dei sommi maestri del passato, ma sulla stessa scia di tanti artisti contemporanei, dei molti pittori che ancora in questo secolo, e fino ai nostri giorni, hanno tenuto viva la tradizione artistico-figurativa di Venezia.
Sì, Miro Romagna non è pittore veneziano solo perchè è nato nel capoluogo lagunare e perchè tantissime volte ne riporta in tavole e tele, calli, rii, campielli, specchi d'acqua e nobili architetture, ma per il fatto piuttosto che di questa città egli sa cogliere sottilmente tutto gli aspetti più diversi, i fremiti e respiri, gli umori, il suo stesso essere intimo. Sono gli elementi che questo artista fa propri da sempre, assorbendoli e quindi sedimentandoli nel proprio io intimo.
Per tale ragione, nei dipinti di Miro Romagna aleggia puntualmente un clima magico, le atmosfere sono trasparenti, vi si trova un carattere festoso, si percepisce quasi il tipico, acre profumo della salsedine lagunare, tutta una gaia musicalità. Mai le sue raffigurazioni costituiscono un fatto meramente estetico; dietro alle forme oggettive palpita regolarmente una straordinaria forma vitale che conferisce a quanto effigiato, fremiti di vita, voce viva, dialogo con chi si pone di fronte. Non rappresentano pertanto esse un semplice episodio, pur sempre apprezzabile, di esclusiva piacevolezza, ma propongono piuttosto argomentazioni per avvedute riflessioni, per ampiamento di conoscenze, per un arricchimento conoscitivo ed emotivo personale. E' quanto del resto si ritrova negli intenti della vera arte, fonte di autentici valori, guida ed alimento di ogni persona, di ogni essere che ami e quindi tenda continuamente a migliorare sé stesso, a crescere in quella che è la propria individualità.

Personale di Miro Romagna alla Galleria “Luigi Sturzo” di Mestre.
(Giulio Gasparotti, 2001)

La proposta di una buona scelta delle opere più belle di Miro Romagna, che rappresentano alcuni momenti della sua storia pittorica, ci è sembrata la più idonea per l'inaugurazione della nuova stagione espositiva. La mia presentazione è, o potrebbe essere, inutile: l'attenta considerazione dei quadri esposti vale molto di più di un discorso o di un catalogo.
L'esperienza insegna che un modo di esprimersi, un linguaggio formale, si sviluppa allorquando l'artista riesce a creare un proprio stile, trasformandone la radice in qualcosa di diverso. Di caratteristico, di valido.
Nel caso di Miro Romagna, la radice è la pittura veneziana, comprovata dal ritmo della pennellata e dei colori, divenuti sulla tela sostanza di poesia e strumento creativo, i segnali attraverso i quali l'ambiente si fa riscoprire.
Esistono vari sistemi di dipingere il cielo, per pensare uno scorcio, per considerare una veduta, per fermare una iconografia mutevole che non trascuri la verità del dato oggettivo. Ma a Romagna basta un frammento di realtà concentrato in tonalità morbide e dosate, in grado di racchiudere e rappresentare lo spirito del tempo, del luogo, dello spazio creato dall'arte, per dare ordine e senso al rapporto realtà-sensazione-espressione.
E tra referenti, riscontri e fughe fanno la loro comparsa l'emozionalità e la tensione, gli equilibri e la sintesi di forme sciolte e vivaci, i piani e le zone di colore, i segni e i profili, accostati secondo una libera trascrizione, fedele d'opera in opera, dal profondo senso cromatico e tonale, per il quale ogni colore vibra accostato ad un altro, andante e mosso come in musica, in luci e atmosfere.
Si può ben dire, che Romagna è riuscito a selezionare gli elementi e i colori per saltare i caratteri emergenti ed emblematici dell'ambiente, in una declinazione personale, non rigidamente incasellata, perchè determinata quanto e come riaffiora in una dimensione interiore dopo averla assimilata nella dimensione reale. Il colore si inserisce così con funzione anche materica e il paesaggio diviene cultura di natura e di ambiente e genera o inventa il suo colore, solcato da lume di luce su orizzonti che scivolano prima di fondersi in sinfonie policrome irripetibili, perchè tutto è luce e colore, tutto è tema e interpretazione.
Rivive, Romagna, senza dubbi, i presupposti dell'Impressionismo però con disinvoltura e genialità venete e con curiosità intellettuale.
C'è lo studio dal vero, ma anche il distacco dal vero e la tipologia impressionistica non elude un tocco espressionistico là dove l'immagine sembra scolpita e a volte un tantino scorticata  dalla stenografia del segno.
Ogni quadro perciò è un incontro riuscito tra i molteplici e inventabili aspetti del visibile, con un gusto brioso dei contrasti, dei risalti formali, di vivacità spaziale, in efficace rispondenza tra forma e contenuto, di pronta combinazione per una lettura indirizzata a cogliere le deviazioni laser, come dice oggi, del paesaggio.
E' il tempo veneziano il risvolto occulto di questa pittura che segue il reale in filigrana con l'immaginario.

Le anime segrete di Venezia nella pittura di Miro Romagna
(Egidio Bergamo, 2002)

Miro Romagna è pittore tra i più significativi del “Chiarismo veneziano” post-impressionistico.  E’ forse l’ultimo grande testimone di un’epoca e di una scuola alla quale si attesta l’arte veneto-lagunare, del primo, e parte del secondo, novecento.
Veneziano, classe 1927, Miro Romagna, versatile qualità endogene, è sospinto da perenni entusiasmi giovanili con il piglio della ricerca e dell’introspezione artistica.
Iniziò a dipendere da ragazzino osservando importanti pittori al cavalletto, appostati  in suggestivi angoli di Venezia. Artisti come Filippo De Pisis, Marco Novati, Carlo Cherubini ed altri, e Neno Mori, del quale fu allievo privilegiato per alcuni anni.
Da tutti, Miro Romagna assimilò una straordinaria proprietà di linguaggio espressivo e la problematica cromatico-luministica. Due aspetti, questi, che costituiscono l’essenza della sua pittura, godibile nelle mirabili vedute veneziane.
Cominciò ad esporre a 15 anni con un’opera, nella collettiva del 1942, tenuta nella Sala Napoleonica insieme ai maggiori pittori veneziani di allora. Pensate la Sua opera fu esposta tra due maestri quali Cadorin e Dalla Zorza.
Ne seguirono numerose altre esposizioni, in Italia e all’estero, conquistandovi consensi e premi, ed ospitalità in musei nazionali. Mostre che segnarono il percorso culturale di un artista in cammino verso sempre nuove esperienze.
Il suo è ancor oggi un dipingere gioioso di vedute lagunari trasfigurate nelle atmosfere cangianti ed angoli di una Venezia minore, omaggio alla storia nel pulsare dei ricordi. E poi nature morte e fiori e visioni sacre: un mondo animato dalla reinvenzione fantastica.
Le sue pennellate sono palpitanti e nervose, ed il gesto vibrante nella levità del tratto sospinto da una tecnica incantevole.
Sul piano strutturale, l’interesse maggiore dell’artista è quello di cogliere le anime segrete di Venezia nella luminosità sfuggevole. E’ l’aspetto maggiore che si coglie maggiormente nelle opere di questi ultimi anni. Sono per lo più vedute veneziane sostanziate nell’emotività espressiva di movimenti diversi che vanno dalla vibrante atmosfera romantica iniziale, alla rarefazione tonale di visioni in cui la luce e il colore si compenetrano sottilmente nell’aria dei riflessi infiniti, per confluire nell’esplosiva accensione dei colori puri.
Miro Romagna è stato tra i più significativi pittori del “Chiarismo veneziano” post-impressionistico, e forse l'ultimo grande testimone di un epoca e di una scuola alla quale si attesta l'arte veneto-lagunare del primo e parte del secondo Novecento.

Siro Perin, 2004 
estratto da “La pittura veneta contemporanea tra tradizione e innovazione”

“Ho scelto il mestiere più bello del mondo”. Con questa frase il maestro Miro Romagna ha espresso la sua concezione dell’arte: una voglia irrefrenabile di dipingere, di creare, che ti conquista ogni giorno della vita, senza soddisfarti mai, e che ti spinge a ricercare qualcosa di nuovo, sempre con lo stesso entusiasmo. Appare chiaro, dunque, che per Lui dipingere è continua ricerca, continua emozione e continua gioia…
La pittura, dunque deve coinvolgere emotivamente prima di tutto l’artista stesso, che proprio da essa trae la voglia di andare avanti, anche nei momenti meno belli.
Il suo pennello, muovendosi ora con tocchi veloci ora con lente scie, sembra trasformarsi in un fioretto, che, sapientemente vibrato da un abile spadaccino, trapunta la tela di luci, delicate velature e accattivanti cromatismi tonali. Queste caratteristiche  usate sapientemente con virtuosa armonia, ci regalano non la fisicità, ma la percezione sensoriale del soggetto, o per meglio dire la sua atmosfera.
Ma cosa è l’atmosfera per Romagna? E’ il bloccare sulla tela con il colore un momento, o meglio diversi momenti, che trasformano la realtà in un flash opalescente e quasi senza tempo.
Così facendo, anche quando dipinge gli scorci veneziani, li trasforma e li fa diventare   magici, attraverso un sottile e ambiguo gioco che dà alla città una dimensione romantica e trasognata, ma al contempo immersa nella realtà. E quando afferma “Io amo Venezia come se fosse una bella donna” appare chiaro che é l’amore il sentimento con cui egli si accosta, in modo discreto e mai banale, alla propria città.
Amore, grazia, leggiadria e freschezza ritornano nelle nature morte o nelle altre composizioni, dove il pittore inserisce anche piccoli elementi come carte di caramelle o oggetti quotidiani, per arricchire l’opera  di  maggiori sensazioni visive ed emozionali.
Romagna è senza dubbio uno dei più grandi continuatori del nostro tempo del tonalismo veneto, che tanto ha dato alla Storia dell’Arte mondiale; ma, grazie alla sua raffinata sensibilità, è riuscito ad assicurarne la continuità, facendovi emergere la dimensione felice e gioiosa. 

 

 
 
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